Come mai l’uomo vede l’ornamento nella natura e produce immagini piuttosto che niente?

La Natura ha un ruolo fondamentale nella storia della decorazione: essa appare infatti all’uomo, sia nelle sue forme organiche, sia in quelle inorganiche come il luogo della decorazione. 

Ma la domanda, prima di tutte le altre, è: perché l’uomo ha inventato la decorazione, e soprattutto perché vede l’ornamento nella natura? (1) In tutta l’arte preistorica, si osserva l’utilizzazione sistematica delle asperità naturali, sculture o disegni intravisti nelle forme delle rocce e probabilmente in  altri simili oggetti inanimati come tronchi d’albero ecc., dei contorni che rappresentavano qualcosa di molto simile ai reali aspetti della natura.

Nel 1981 dall’archeologo Goren-Inbar della Hebrew University di Gerusalemme fu ritrovato sulle alture del Golan un reperto archeologico sospetto di essere una venere paleolitica risalente a 250.000 di anni fa, prima della comparsa di Homo sapiens. L’oggetto è di tufo rosso, lungo 35 mm, con almeno tre incisioni eseguite sulla sua superficie da una pietra tagliente; queste scanalature possono essere interpretate come la marcatura del collo e delle braccia, un primo “segno” che sarebbe “emerso” in Homo il riconoscimento di una forma in un’altra forma (un corpo in un ciottolo) non limitandosi al visibile. 

Il quesito al quale molti ricercatori cercano di dare una risposta è: “Perché l’uomo ha sentito la necessità di decorare le pareti delle caverne, dei primi contenitori per il cibo, del proprio corpo con monili, ma anche con tatuaggi?” Le teorie sono diverse e affascinanti. Alcuni scienziati affermano che già 3,2 milioni di anni fa l’uomo era dotato del pollice opponibile come documenta M. Skinner, paleoantropologo dell’Università del Kent ( e grazie a questa possibilità l’Homo Erectus impara a cuocere i cibi, questa pratica consente di ricavare più calorie dalle sostanze consumate e di diminuire, di conseguenza, le ore dedicate all’alimentazione. Furono così superate le limitazioni metaboliche che negli altri primati non hanno permesso uno sviluppo del numero di neuroni e delle dimensioni del cervello proporzionale alle dimensioni corporee. Inoltre si avvia il processo di sviluppo della corteccia prefrontale che è una delle aree più interessanti e decisive per comprendere il pensiero astratto. Si sviluppa così la mente, insieme alla nascita del linguaggio, un fenomeno tutt’altro che semplice e uniforme, considerato la guida dei pensieri e delle azioni in relazione agli obiettivi e agli aspetti di adattamento dell’uomo (3).La mente, però, è una mente inquieta che abbraccia la modalità del fare, che continuamente pensa, immagina, lavora, cerca soluzioni, si proietta all’esterno e inventa. È nel Paleolitico superiore, circa 17.500 anni fa, che l’uomo sapiens inizia a decorare le pareti delle grotte, le ciotole e non di meno il proprio corpo. Troviamo un esempio eclatante nelle grotte di Lascaux con più di 6.000 immagini di animali, figure umane, decorazioni e segni astratti.

Come mai l’uomo è arrivato a produrre immagini piuttosto che niente? Hans Belting, storico dell’arte (6), afferma che l’uomo è probabilmente l’unico essere vivente non solo a produrre immagini, ma è l’unico a dar loro vita. La sua mente, e con essa il suo corpo, è popolata da rappresentazioni proiettate all’esterno. 

Luca Mori del dipartimento di filosofia dell’Università di Pisa (2) fa un’ipotesi interessante sulle condizioni che avrebbero permesso l’inizio dell’esperienza di una mente estetica nell’Homo delle origini, quali vincoli organizzativi della mente incarnata la resero possibile e come ne furono di conseguenza trasformati: (a) un esemplare di Homo vede una scena di caccia e la sua mente ne resta impressionata (presenza dell’oggetto e sguardo rivolto all’oggetto); (b) l’Homo ritiene la scena veduta (costituirsi di “formula carnale” o equivalente interno); (c) la mente ritiene la scena veduta anche a distanza di spazio e di tempo; ne comunica con gli altri, anche in forma drammatica; (d) Homo dipinge, incide la parete, scolpisce e così la “formula carnale” si esprime in un tracciato visibile; (e) nel tracciato visibile un altro sguardo riconosce i “motivi” che hanno impressionato lo sguardo dell’artista. Ma probabilmente c’è di più l’uomo può raffigurarsi cose mai vedute combinando cose note: l’immaginazione e la proiezione sono attività produttive di mondi, di visioni, di relazioni. Nelle fasi antiche la suggestione è soprattutto fisica e si limita a richiamare la figura di un singolo animale. Nelle fasi più recenti la forma espressiva è più globale ed è costituita da insiemi (4) come nel caso delle gobbe del soffitto di Altamira.

Riferimenti bibliografici:

1)L. Gasparini, La mente inquieta che regala tanta bellezza

https://www.doppiozero.com/materiali/la-mente-inquieta-che-regala-tanta-bellezza

2)A.Mori, Le origini di Homo e le origini dell’esperienza estetica e antropogenesi

Academia.edu/8360309

3)E.Cassirer, Saggio sull’uomo. Una introduzione alla filosofia della cultura umana (Armando editore, 2004)

4)A.Leroy-Gouran, Il gesto e la parola (Einaudi, 1977)

5)M. Skinner, paleoantropologo dell’Università del Kent (GB)

lescienze.it/news/2016

6)H. Belting nel suo saggio Antropologia delle immagini (Carocci, 2013)

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I disordini linguistici come conseguenza di disordini genomici, ambientali o culturali

Noam Chomsky per primo , intorno agli anni 50’, ha avuto l’intuizione di una grammatica generativa, secondo cui le lingue umane possiedono tutte una base di caratteri comuni, poi si è visto che la facoltà di linguaggio non è completamente uniforme, ma presenta notevoli variazioni che la grammatica universale non è in grado di cogliere, che le variazioni nei processi di sviluppo appaiono legate alla forte interazione tra fattori genetici e fattori legati all’ambiente in cui l’organismo vive. Il campo di modificazione del linguaggio e dei fenomeni linguistici è molto ampio e i cambiamenti avvengono sulla base dell’esperienza linguistica (Berwick, Chomsky 2011).

Secondo Chomsky ed altri ricercatori, sia in biologia che in linguistica il problema è riconciliare l’unità nella diversità del linguaggio e una linguistica moderna dovrebbe essere pensata come una branca della biologia dello sviluppo, poiché uno degli obiettivi centrali della grammatica generativa è quello di spiegare lo sviluppo del linguaggio nell’individuo.

Nell’ambito degli studi sul linguaggio si è sviluppato recentemente un nuovo orientamento che  tramite l’integrazione di diverse visioni provenienti da biologia evolutiva, genetica, paleoantropologia e linguistica clinica, si interroga su questioni che hanno l’obiettivo di scoprire le profonde variazioni della facoltà di linguaggio umano attraverso lo studio del rapporto tra genotipo e fenotipo e l’indagine di patologie linguistiche. Questo approccio è influenzato dall’idea chiave in biologia dello sviluppo, per cui impercettibili trasformazioni nei tempi e nelle gerarchie dei meccanismi regolatori possono generare grandi differenze superficiali. Lo sviluppo del linguaggio non sarebbe dovuto esclusivamente a fattori interni all’organismo (Bickerton 2014), ma alla complessa interazione tra l’organismo e il suo ambiente che forma l’architettura cognitiva finale (Benitez-Burraco, Boeckx 2014).

Per la comprensione dell’evoluzione del linguaggio sono stati condotti, ad esempio, degli studi sugli automatismi causati dall’afasia di Broca, che spesso si presentano come un primo stadio che progredisce poi nell’agrammatismo. Gli automatismi del parlato, ovvero la produzione di espressioni automatiche, involontarie, stereotipate e ripetitive che possono essere prodotte sia in forma non lessicale che in forma lessicale. Gli automatismi non lessicali, che non formano parole riconoscibili, sono formati da sillabe e rappresentano l’espressione fonetica evolutivamente più antica che un uomo adulto produce. Gli automatismi del parlato lessicali, invece, consistono in parole prodotte fluentemente e frequentemente, e includono espressioni emozionali, saluti, imprecazioni e parolacce, esclamazioni, e attività seriali automatiche come contare, pregare, recitare tavole aritmetiche. Essi  hanno un range semantico abbastanza stretto: sono presenti nomi di persone (conosciute al parlante); sequenze di numeri; espressioni si/no; e il sottotipo più ampio, imprecazioni e frasi con strutture pronome + modale/ausiliare. Sono questi ultimi due sottotipi ciò che viene interpretato come indizio per comprendere le origini della comunicazione umana. La maggior parte di tali automatismi non ha alcuna connessione referenziale, contestuale o intenzionale con il mondo del parlante.

Gli automatismi del parlato sono innescati da uno stato interno, come risposta a stimoli esterni, ma la loro struttura di superficie non ha nessuna relazione semantica con l’intenzione dell’individuo. I parlanti che producono tali automatismi sono cioè inconsapevoli dell’inappropriatezza di queste espressioni.

Si è visto, inoltre, che il linguaggio stereotipato, emotivo e automatico così come gli idiomi, le metafore e altre figure complesse che non coinvolgono i processi combinatori linguistici, sono processati dall’emisfero destro e interessano gangli basali, talamo e sistema limbico. Le strutture basali-limbiche sono filogeneticamente antiche e pertanto sono coinvolte negli aspetti della comunicazione umana evolutivamente meno recenti (Pennisi 2006).

Anche la comunicazione emotivamente carica, come le urla o il pianto, la comunicazione tra amanti o quella tra madre e figlio, è mediata dal coinvolgimento del sistema limbico. Si è osservato che l’elevata frequenza di imprecazioni nel parlato automatico è sempre associata a danni neurali molto estesi. Ciò porta a dedurre che anche le imprecazioni hanno rappresentazioni profonde che vanno oltre l’area del linguaggio peri-silviana. Le imprecazioni e le parolacce emergono dunque da zone evolutivamente antiche del cervello e nelle patologie sono dovute alla disinibizione delle strutture basali-limbiche, normalmente sotto il controllo del network prefrontale.

Gli automatismi del parlato sembrano pertanto, rappresentare uno stadio evolutivo precedente alla comparsa dell’area di Broca (che comincia a svilupparsi soltanto nell’homo habilis), ed è per questo che sono intesi come indizi fossili del protolinguaggio.

Nel corso dell’evoluzione, queste espressioni comunicano invece stati interni e atti linguistici, espressioni cioè che possiedono una funzione performativa, che hanno lo scopo di manipolare gli altri e di costruire o mantenere le relazioni sociali.

Conclusioni

La facoltà di linguaggio sembra facile da danneggiare poiché è una novità evolutiva. Allo stesso tempo però si basa su forti meccanismi biologici difficili da disturbare perchè capaci di compensare in molti modi ai danneggiamenti. Questo spiega perché alcune componenti linguistiche risultano danneggiate in molti disordini del linguaggio e perché altri aspetti del fenotipo linguistico sono sostanzialmente preservati. L’evoluzione deve essere intesa come un processo riorganizzativo piuttosto che come un prodotto di geni nuovi; il linguaggio a sua volta risulta dall’interfaccia di differenti componenti cognitive neurali e genetiche (Fitch 2011).

Riferimenti bibliografici:

Scianna C.,  Biolinguistica ed evo-devo: come le patologie linguistiche spiegano l’evoluzione funzionale del linguaggio https://www.academia.edu/10267123/Biolinguistica_ed_evo-devo_come_le_patologie_linguistiche_spiegano_levoluzione_funzionale_del_linguaggio

Pennisi A., (2006), Patologie e psicopatologie del linguaggio. In A. Pennisi, P. Perconti (a cura di) Le scienze cognitive del linguaggio, Il Mulino, Bologna 2006

L’uso dell’immagine nel laboratorio di comunicazione espressiva, a mediazione artistica, per persone con disturbo afasico

Nel laboratorio di comunicazione espressiva per persone con disturbo afasico l’uso delle immagini ha come scopo, in un’ottica fenomenologico-gestaltica, di riabilitare i disturbi della comunicazione già a partire dalla  percezione, considerata come il fondamento dello sviluppo cognitivo e del linguaggio.

Qual è la relazione che intercorre tra linguaggio e percezione? Come influiscono sul linguaggio umano le nostre percezioni? 

Nella nostra vita siamo abituati a vedere oggetti, li distinguiamo dal flusso continuo della scena percettiva, li identifichiamo con parole, li manipoliamo. Queste sono tutte azioni che facciamo apparentemente senza grossi sforzi cognitivi, ma la distinzione delle figure, l’identificazione di oggetti e la loro denominazione sono operazioni tutt’altro che scontate. Il nesso con il mondo fisico e quindi con la percezione di tale mondo, è fondamentale per la produzione e lo sviluppo del linguaggio. Secondo David L. Waltz, prima di poter nominare un oggetto, prima di identificarlo come tale, quello che sembra fondamentale è, da un lato, la percezione non tanto della cosa in sé, ma di quella cosa come un concetto unitario e, dall’altro, la percezione dell’unitarietà del concetto come il tratto più importante dell’oggetto stesso. Da un tale punto di vista, la percezione non è solamente il punto di partenza per la formazione e lo sviluppo del linguaggio, bensì costituirebbe una condizione essenziale senza la quale il linguaggio probabilmente non potrebbe aver luogo (1).

Per Rudolf Arnheim (Berlino 1904-2007) psicologo della Gestalt, allievo di Max Wertheimer e di Wolfgang Kohler, e fondatore della psicologia dell’arte, i processi primari della percezione seguono meccanismi analoghi a quelli del ragionamento: la nostra risposta percettiva al mondo sarebbe il mezzo fondamentale attraverso cui organizziamo i fenomeni di cui siamo testimoni e da cui nascono le idee e gli stessi simboli del linguaggio: << Le operazioni cognitive chiamate pensiero non sono privilegio dei processi mentali posti di sopra e al di là della percezione, bensì gli ingredienti essenziali della percezione stessa (2)…Uno stesso meccanismo, quindi, sembra operare su entrambi i livelli: quello percettivo e quello livello intellettivo, cosìcchè, inevitabilmente, termini quali: concetto, giudizio, logica, astrazione, conclusione, calcolo, devono essere applicati anche all’attività dei sensi. La percezione compie a livello sensoriale, ciò che nel campo del ragionamento si indica come “comprensione” >> (3).

La percezione è dotata di tutta una serie di capacità che tradizionalmente sono state attribuite – e lo sono spesso tutt’ora – a facoltà mentali erroneamente ritenute superiori. Essa ha la capacità di afferrare l’essenziale, di cogliere i tratti strutturali di qualcosa, è finalizzata, cioè diretta a cogliere le qualità degli oggetti che li rendono salienti per determinati scopi in determinate circostanze ed è selettiva, vale a dire in grado di individuare i tratti essenziali degli oggetti rispetto al contesto in cui essi si trovano (3).

Lidia Gomato

 Riferimenti bibliografici:

  1. Waltz, D. L. (1978), On the interdependence of language and perception. In D. L. Waltz (Ed.), Theoretical issues in natural language processing, Association for Computing Machinery, New York
  2. Garau A.  “ Pensiero e visione in R. Arnheim”  – Franco Angeli 1989
  3. Arnheim R. “Arte e percezione visiva. Nuova versione” a cura di G. Dorfles 2002
  4. Rossi O. Lo sguardo e l’azione. Il Video e la fotografia in Psicoterapia e nel Counseling. Edizioni Universitarie Romane 2009

 

Un approccio fenomenologico alla valutazione neuropsicologica del disturbo afasico – Metodo del Prof. Lamberto Longhi

La fenomenologia è un metodo per comprendere la significatività dell’esperienza vissuta del malato non vuole spiegare, la descrive a partire dalla fedeltà al fenomeno e l’intersoggettività. <<La fenomenologia husserliana cerca nell’esperienza umana come fenomeno le caratteristiche invarianti, sottolineando in questo modo il valore intersoggettivo delle percezioni. E’ questo il realismo fenomenologico: un realismo intersoggettivo, basato sulla fedeltà al fenomeno, frutto della condivisione dei punti di vista. La realtà secondo Husserl, quindi, non è mai solamente nella mente dell’individuo ma è dentro a un processo condiviso, non solitario, di significazione>> (Ghirotto L.,2016).

Sviluppare un’analisi fenomenologica-antropologica significa dispiegare un’analisi intenzionale, che mette in luce << le differenze di struttura tra il tipo di rapporto intenzionale che col mondo intrattiene l’organismo e quello che con esso intrattengono, invece, gli esseri umani. Per questo, nell’avviare la discussione della differenza antropologica, la fenomenologica analizza, in primo luogo, le strutture intenzionali, o meglio: la correlazione intenzionale e il tipo di mondo che si manifesta in essa. Infatti, a caratterizzare l’organismo è la “povertà di mondo”, dunque un certo tipo di rapporto intenzionale con il mondo che manca interamente nel caso della macchina>> (Costa V., 2010 ). L’antropologia-fenomenologica (o fenomenologia obbiettiva) intende accedere direttamente ai fenomeni neuropsicologici considerandoli nella loro immediatezza semanticaricercando in essi una articolazione di senso.

Nell’ottica di una neuropsicologia fenomenologica << la difficoltà di definire la malattia studiata, disturbo afasico incluso (corsivo mio) e la funzione normale corrispondente, è una difficoltà che non può essere superata senza una riflessione metodologica e senza una teoria della conoscenza biologica…..perché  il sintomo è una risposta dell’organismo a un problema posto dall’ambiente, e che dunque la tavola dei sintomi varia con i problemi che vengono posti all’organismo….. Il problema dell’afasia, pertanto, non può più essere risolto dall’ analisi reale e di spiegazione causale che ha condotto a definire l’afasia o più generalmente le agnosie in base a determinate turbe circoscritte, in base all’assenza di certi contenuti del comportamento>> (M. Merleau Ponty 1943; trad. 1963, p. 113-114), come ad esempio l’alessia, l’agrafia, l’aprassia ecc.  << Del pari l’atto esistenziale di comunicazione non può essere limitato soltanto alle dimensioni di un rapporto semantico più o meno convenzionale, vale a dire nelle strutture di un rapporto sociale codificato, inteso come causa e origine del linguaggio>> (Longhi L. 1985, p. 503). Si è visto, infatti, come le analisi linguistiche, anche se molto attente ed accurate delle manifestazioni sonore, fonetiche, fonematiche, morfemiche e frasali, si sono mostrate insufficienti nel render conto della complessità del linguaggio.

 Secondo L. Longhi a monte del dato linguistico e delle regole lessicali, sintattiche e semantiche,  il linguaggio va visto  nel suo “farsi” come comportamento, e quindi come gesto. Da un tale punto di vista la parola della lingua convenzionale << ha le sue radici nel gesto verbale e non nel significato lessicale, sia pure depositato nella memoria a lungo termine, il cui ruolo potrebbe essere quello di un modello convenzionale a cui adeguarsi>> Il problema di linguaggio trova nel disturbo afasico, la possibilità di un’analisi del gesto verbale nei momenti del suo dispiegarsi  come “potere aperto di significare ” (M. Merleau Ponty),  propria della corporeità umana e per la quale l’ uomo è homo simbolicus (Cassirer E.)>> (Longhi L., 1985, p. 514) Oltre alla “presenza” dell’Altro, come scopo del messaggio, è necessario prendere in considerazione anche gli aspetti dell’<uso o utensilità> come dimensioni funzionali della corporeità, della funzionalità articolatorio-fonemica e del suo strutturarsi nei livelli del fonema, del monema, della parola, della frase e del messaggio, come gestualità capace di significare. (L.Longhi, 1985, p.551).

In alternativa all’indagine neuropsicologica tradizionale dell’afasia, che mira a fare un inventario di ciò che manca e di ciò che è rimasto al malato e del come è rimasto, L. Longhi propone un’indagine semeiologica orientata ad una strutturalità complessiva del linguaggio, come unità funzionale, e delle sue possibili regole strutturali.  Lo scopo di tale indagine è quello di comprendere << i modi strutturali ancora possibili del comportamento simbolico, vale a dire: intenzione, attenzione e i vari livelli della gestualità articolatorio-fonemica …..che attraverso  il messaggio espresso e ascoltato, mira a realizzare una comunicazione>> (L. Longhi 1985,p.575),  seppur ridotta (corsivo mio). 

Lidia Gomato

Riferimenti bibliografici:

 Ghirotto L., Il metodo di ricerca e la pedagogia fenomenologica. Riflessioni a partire da Piero Bertolini – Encyclopaideia XX (45), 82-95, 2016, ISSN 1590-492X 

Costa V. La questione dell’antropologia nell’analisi fenomenologica –Etica & Politica / Ethics & Politics, XII, 2010, 2, pp. 137-163

Longhi L.– Afasia, Trattato di Neurologia Riabilitativa M.M. Formica – Editore Marrapese 1985 (p. 503-551-575)

Merleau-Ponty M., La structure du comportament, 1942, trad. 1963, Ed. Bompiani

Perché un Labororatorio di Comunicazione Espressiva, a mediazione artistica, per persone con disturbo afasico?

Qualunque paziente, per quanto intrattabile possa apparire la sua condizione, mantiene la capacità di sorprendere un terapeuta che non si perda d’animo.    Wing Brown, 1971

Con l’affermarsi dell’impianto teorico della  teoria dei sistemi, si è visto che nella cura non è più possibile scindere l’osservatore e l’osservato, per cui anche il setting logopedico viene considerato come un sistema di cui il terapista stesso è parte attiva fondamentale. Egli assume il ruolo di vero interlocutore, non può più limitarsi a svolgere il suo lavoro da osservatore esterno e ridurre il suo intervento all’interpretazione e trattamento dei disturbi della comunicazione da un punto di vista oggettivo, che esclude la corporeità. Il cambiamento in atto investe il logopedista di una responsabilità personale nella cura dei pazienti, oltre ad essere un reale interlocutore nella comunicazione egli diventa anche guida e sostegno.  L’azione terapeutica si svolge all’interno di una relazione con l’altro e tiene conto  del  vissuto del paziente, di ciò che egli sente.

Un tale contesto culturale e scientifico offre nuove formule di spazio, tempo e regole nella riabilitazione logopedica dell’afasia, e consente  di pensare ad un Laboratorio di Comunicazione Espressiva come un luogo in cui è possibile portare avanti un intervento riabilitativo attivo dei disturbi della comunicazione da lesione cerebrale acquisita, inquadrabile nell’area umanistica, dove prevale l’impronta dialogica, la rinuncia all’interpretazione a favore dell’osservazione fenomenologica e della comunicazione empatica. Un laboratorio come spazio potenziale dove è possibile la narrazione e la costruzione di senso, il confronto e la ristrutturazione degli schemi percettivi e dell’immagine di sé, come un’occasione protetta di esplorazione attiva del potersi e volersi esprimere nel gruppo con l’aiuto dei mediatori artistici. La pantomima, il teatro, il disegno, la pittura, le foto, gli audiovisivi ecc., sono tutti strumenti che consentono di lavorare su uno spazio di comunicazione intermedio, esperienziale, di mettere in contatto il linguaggio interno con il linguaggio esterno, di stabilire una connessione tra la persona afasica e l’ambiente.

Lidia Gomato

Riferimenti bibliografici:

De Leonibus R. “ Le dimensioni della cura. Viaggi intorno al setting ” in Cos’è che cura? La cura in ambito medico, psicologico, psicoterapeutico e psichiatrico. A cura di Acocella M. e Rossi O., 

                       

                                                          

                                    

Editore Nuova Associazione Europea per le Arti Terapie, anno 2014

Il ruolo della pantomima nel Laboratorio Sperimentale di Comunicazione Espressiva per persone con disturbo afasico

L’idea che una particolare forma di comunicazione gestuale-corporea, definita da alcuni autori pantomima (Arbib 2012; Corballis 2011; Ferretti 2016; Ferretti et al. 2017; Tomasello 2008) o mimesis (Donald 1991;2012; Mc Bride 2014; Zlatev 2014), resa possibile dall’evoluzione del sistema specchio, sia stata una tappa importante nel processo evolutivo del linguaggio umano, in cui si è passati gradualmente da un sistema comunicativo prevalentemente gestuale a uno prevalentemente vocale è oggi condivisa da molti studiosi. 

Le ricerche sui neuroni specchio, avvalorano  l’ipotesi che l’elaborazione linguistica sia radicata in meccanismi di “basso livello” fondati sulla percezione e sull’azione e che il linguaggio sia nato da un sistema comunicativo brachio-manuale (Arbib 2005; Armstrong, Wilcox 2007; Corballis 2010; Fogassi, Ferrari 2007). 

Rizzolatti e Arbib (1998) hanno ipotizzato che la capacità di compiere e riconoscere azioni manuali abbia costituito la base per lo sviluppo della capacità di compiere e riconoscere gesti manuali comunicativi che, a sua volta ha fornito le basi evolutive per i meccanismi cerebrali che supportano la “parità” del linguaggio ( l’ approssimativa congruenza tra ciò che il parlante intende e ciò che l’ascoltatore capisce) .

Secondo Merlin Donald, che ha proposto il primo modello teorico dell’evoluzione della mente e del linguaggio sulla comunicazione mimica (Donald M.,1991, 2012), la rilevanza della mimesis ai fini dell’origine del linguaggio è data dal fatto che tale forma di rappresentazione << quando vi è un pubblico che interpreta l’azione [….] serve anche per la comunicazione sociale [….] poiché un atto mimico può essere interpretato da altri in possesso di una sufficiente capacità di percezione di eventi>>. Da questo punto di vista la pantomima costituisce una piattaforma naturale per l’avvento della comunicazione linguistica essa è la modalità espressiva che più di tutte mette in risalto le nostre capacità comunicative gestuali, perché è una forma di comunicazione spontanea che coinvolge l’intero corpo e in cui il significato è veicolato sulla base di un rapporto di somiglianza-iconicità- con l’oggetto e l’evento rappresentati (Donald 1991, 2012, cit. Adornetti et al. p.51).

Un interessante studio di Xu e colleghi (2009), inoltre, ha mostrato che la comprensione di azioni pantomimiche attiva nel cervello umano aree generalmente ritenute specifiche per il linguaggio (un network lateralizzato a sinistra di regioni temporali posteriori e frontali inferiori) ( Adornetti I. et al., 2018, pp.53-54). 

Recentemente, nel contesto delle prospettive teoriche che identificano nella narrazione l’aspetto peculiare del linguaggio (ciò che distingue il linguaggio umano dalla comunicazione animale), è stata avanzata l’ipotesi che la pantomima abbia rappresentato una ideale piattaforma per l’avvento della comunicazione umana perché essa costituisce una modalità primordiale di raccontare storie in assenza di linguaggio ( Adornetti I. et al. , 2018, pp.53-54).

Nell’esperienza clinica e riabilitativa dell’afasia possiamo osservare nei malati, più spesso di quanto si pensi, una difficoltà transitoria o stabile, di imitazione e/o comprensione di gesti mimati. Tale difficoltà, quando è molto evidente, viene inquadrata dalla neuropsicologia tradizionale come disturbo aprassico,  cioè: un disordine motorio, non riconducibili a paralisi di gruppi muscolari, disordini sensoriali elementari, deficit intellettivi o ridotta capacità di comprensione del linguaggio, si evidenziano quando al paziente viene chiesto di eseguire – su imitazione o su comando verbale – un movimento senza significato o un gesto familiare (Rothi, Ochipa & Heilman 1997, Cognitive Neuropsychology), ma nella realtà riabilitativa non è sempre possibile trovare dei confini così netti tra un disturbo e l’altro.

Penso che poter osservare un pò più da vicino, nelle persone con afasia, la possibilità o meno di espressione mimica, oltre che verbale, in uno spazio aperto, non codificato, sia di grande utilità ed interesse per un’ulteriore comprensione e di tale disturbo.

Nell’ottica di una riabilitazione integrata, per sperimentare e favorire la comunicazione attraverso linguaggi diversi e in situazioni strutturate, si è pensato di istituire nell’anno in corso presso l’AITA Onlus Regione Lazio, un Laboratorio Sperimentale di Comunicazione Espressiva, a mediazione artistica.

Lidia Gomato

Riferimenti bibliografici:

Adornetti I., Chiera A., Ferretti F., Embodied Cognition e origine del linguaggio: il ruolo cruciale del gesto – Rivista Lebenswelt, 13 , 2018

Azione, percezione e affettività nella prospettiva embodied della comprensione del linguaggio

Negli ultimi decenni si è verificato un cambiamento di paradigma nelle scienze cognitive che tendono sempre più verso un approccio incarnato e contestualizzato, questo nuovo paradigma sta lentamente rimpiazzando la tradizionale visione astratta e mentalista della cognizione.

In opposizione alla tradizionale visione della cognizione basata sulle rappresentazioni mentali, gli approcci incarnati considerano elemento fondante per la cognizione l’accoppiamento senso-motorio tra organismo e ambiente. Secondo le teorie embodied, non esiste una separazione tra processi cognitivi superiori e inferiori, perché l’attività cognitiva ha luogo nel contesto di un ambiente e coinvolge, in modo fondamentale, la percezione, l’azione e l’affettività. L’affettività con cui ci relazioniamo alle cose che ci circondano sarebbe la modalità primaria con cui un organismo attribuisce significato al suo ambiente.

Un contributo fondamentale allo sviluppo delle prospettive embodied è venuto dalla scoperta dei neuroni specchio. E’ stato più volte dimostrato che siamo dotati di una particolare classe di neuroni, multisensoriali e motori, che si attivano quando osserviamo, udiamo, leggiamo e perfino quando pensiamo un’azione, come se fossimo noi ad eseguirla, significa che simuliamo, o rispecchiamo, l’azione che stiamo percependo.

Ma la cosa straordinaria è che il rispecchiamento dell’azione percepita non è generato da un qualche processo cognitivo di ordine superiore, ovvero da una qualche forma di rappresentazione o di meccanismo riflessivo, bensì dall’attivazione degli stessi circuiti neurali sensori-motori che verrebbero reclutati per compiere l’azione che si sta percependo. E’ attraverso questa simulazione neurale che noi abbiamo accesso ad una pre-comprensione automatica, pre-riflessiva e preconcettuale di quello che percepiamo.

Gallese e Lakoff (2005) sostengono il ruolo decisivo del sistema senso-motorio nella conoscenza concettuale, che non sarebbe, pertanto, conseguente ad operazione simboliche astratte, quanto basata sulle nostre esperienze percettivo-motorie, mappate a livello neurale a seguito delle interazioni costanti con le cose, gli altri e l’ambiente.

Tali scoperte hanno avuto, naturalmente, anche delle ripercussioni sullo studio del funzionamento del linguaggio. In opposizione ai modelli simbolici astratti tipici delle scienze cognitive classiche, le teorie embodied hanno mostrato che l’elaborazione linguistica poggia su simulazioni multimodali di percezioni, azioni ed emozioni (Barsalou 1999; Gibbs 2006; Glenberg et al. 2013; Pulvermüller 2005). Un coinvolgimento del sistema motorio è stato rilevato oltre che nel riconoscimento delle azioni, nella percezione dei suoni e nella percezione del linguaggio parlato. Da una ricerca di Fadiga e colleghi (2002) è emerso, ad esempio, che la percezione di enunciati contenenti consonanti linguali (le consonanti articolate con la punta della lingua) provocava negli ascoltatori un aumento dell’attività dei muscoli della lingua. Altre ricerche, condotte su pazienti con lesioni cerebrali, hanno evidenziato che soggetti con lesioni nella corteccia frontale inferiore sinistra (una delle aree del sistema specchio negli umani) o affetti da patologie degenerative del sistema motorio presentano deficit nella comprensione dei verbi di azione e nella comprensione di immagini che raffigurano azioni (Bak et al. 2001; 2006) 

Kurby e Zacks (2013), inoltre, hanno mostrato che il sistema motorio ha un ruolo importante anche nell’elaborazione narrativa. Attraverso l’utilizzo di tecniche di neuroimmagine funzionale, i due autori hanno infatti messo in evidenza che la comprensione di storie comporta la costruzione di rappresentazioni specifiche per modalità: la lettura di testo con informazione motoria è collegata a un aumento dell’attività cerebrale nelle aree motorie corrispondenti (solchi precentrale e post centrale nell’emisfero sinistro), mentre la lettura di testo con informazione uditiva attiva maggiormente le regioni nella corteccia uditiva (tra cui, il giro temporale superiore sinistro). Le osservazioni fin qui riportate suggeriscono che gli aspetti motori rappresentano una componente fondamentale dell’elaborazione linguistica. (cit. Adornetti I. et al., 2018, pp.47-48). 

Se è vero dunque, come sembra confermato dai diversi studi delle scienze cognitive embodied, che la comprensione recluta il sistema motorio (almeno nella fase di avvio) attraverso l’attivazione dei meccanismi di rispecchiamento che operano su base intenzionale e intuitiva, le implicazioni nella riabilitazione dei disturbi del linguaggio sarebbero molteplici e alquanto innovative. I nuovi approcci dovrebbero assumere una connotazione fortemente percettiva-motoria e avvenire su base multimodale, ovvero attraverso il coinvolgimento di tutti gli aspetti del corpo: il fare, il toccare, il guardare ecc. 

Lidia Gomato

Riferimenti bibliografici:

Gallese V., Lakoff G., The brain’s concepts: the role of sensory-motor system in conceptual knowledge, Cognitive Neuropsychology, 2005, 21

Adornetti I., Chiera A., Ferretti F. et al., Embodied Cognition e origine del linguaggio: il ruolo cruciale del gesto, Lebenswelt Aesthetics e Philosopy of Experience, 13, 2018 (pp. 47-48)

Galbusera, L., Fuchs, T. (2013). Comprensione incarnata: Alla riscoperta del corpo dalle scienze cognitive alla psicoterapia. In-Mind Italia, V 1–6.

La musica come gesto e suono alle origini del linguaggio

Nel XX secolo, molte ricerche hanno evidenziato come l’uso di strumenti per produrre un suono è universale nella specie umana (inclusa la percussione su parti corporee)  e frequente nei primati. Si è visto, ad esempio, che i grandi primati africani (scimpanzé e gorilla) usano percuotere con strumenti parti del corpo, alberi o altri oggetti (drumming), come segno di socializzazione, di lotta e di gioco. Tali studi portano a pensare che il drumming bimanuale nei grandi primati africani abbia una forte omologia per quello che riguarda l’uso di strumenti musicali negli umani. Inoltre, studi comportamentali sui macachi hanno confermato che i suoni drumming attraggano l’attenzione degli altri membri del gruppo nello stesso modo delle vocalizzazioni dei conspecifici. Un  approfondimento dello studio, effettuato tramite la Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI) per vedere quali regioni cerebrali venivano attivate in maniera preferenziale dai suoni drumming e dalle vocalizzazioni, ha rilevato che in entrambi i livelli di percezione sonora si attivava sia la corteccia uditiva caudale che l’amigdala. Un tale esito della ricerca suggerisce un’origine comune del sistema vocale e di quello di comunicazione non vocale, ciò supporta l’ipotesi di un’origine gestuale dello speech e della musica (Remedios 2009; cit. da Invitto S., Francioso A., 2013, p.53). E’ interessante notare che altri studi  avevano già evidenziato che le scimmie antropomorfe sono capaci di utilizzare un gesto fonetico di comunicazione all’interno del gruppo e come i suoni di richiamo conspecifici nei macachi attivino anche le aree di Broca e di Wernicke (Gil-de-Costa et al.,2006; cit.2013, p.53).

Secondo alcuni ricercatori, la specie Homo avrebbe sviluppato le diverse modalità comunicative a partire dai comportamenti di imitazione consentiti dalle caratteristiche funzionali dei neuroni specchio e dal loro controllo cognitivo. Queste forme comunicative, che inizialmente erano gestuali,  nel corso dell’evoluzione, avrebbero originato le articolazioni del linguaggio verbale. In una tale prospettiva l’Homo Habilis sarebbe stato in grado di comunicare attraverso una forma di proto-linguaggio gestuale, l’Homo Erectus di produrre un codice linguistico mimico-gestuale, e l’Homo Sapiens  avrebbe presentato per primo, strutture cerebrali che avrebbero consentito di associare al linguaggio gestuale le prime vocalizzazioni e avrebbero consentito all’Homo Sapiens Sapiens l’uso cognitivo e intenzionale della comunicazione gestuale e vocale. Gentilucci & Corballis (2006, cit. 2013, p.65) ipotizzano che alla base di questo processo evolutivo ci sia stato un meccanismo istintivo di atti comunicativi condivisi, che hanno permesso di associare il significato del gesto a quello della parola. 

La presenza del‘drumming’nei primati, date le frequenze vibratorie della musica e il coinvolgimento dei neuroni specchio (neuroni senso-motori) durante l’ascolto di performance musicali, fa pensare che uno dei primi canali recettoriali di percezione musicale sia stata la comunicazione attraverso il contatto corporeo con l’altro (sistema aptico), (Zatorre, 2011;  cit. 2013, p. 68).

Riferimenti bibliografici:

Invitto S., Francioso A., Neuroarcheologia musicale: musica come protolinguaggio, Rivista Psycophenia, anno XVI -n. 28/2013

La parola come gesto. Un approccio fenomenologico alla riabilitazione del disturbo afasico

tratto da una lezione di Lambero Longhi del 1982

a cura di Lidia Gomato

Era piuttosto difficile capire come si potesse parlare della parola distaccata dal gesto che l’ha prodotta, allora si è pensato di unire gesto e significato tramite una convenzione. In tal modo la parola poteva essere studiata come un problema a sé, da un punto di vista strettamente semantico, in questa ottica non c’era una gestualità capace di farsi suono, di farsi struttura articolatorio-fonetica. Nella prospettiva fenomenologica, invece, il significato parte già quando noi iniziamo la parola, cioè prima ancora che la parola sia finita, sia definita.

Noi per convenzione possiamo fare un codice Morse, cioè affidare ad un determinato numero di gesti, che sono quelli del punto e della linea, e affidare alla combinazione di questi gesti, per convenzione, un significato, ma il linguaggio Morse non è un linguaggio vero e proprio, così come non lo è, forse, sotto certi aspetti, il linguaggio matematico. Un linguaggio autentico è certamente quello delle arti figurative: lo scultore, il pittore, il musicista fanno dei linguaggi, perché l’inizio dell’espressione non è alla fine del gesto, ma all’inizio del gesto. Ora se il rapporto tra gesto e significato, fra movimento e significato, non è alla fine del gesto, ma è durante il momento in cui il gesto si fa tale, cioè si realizza, allora è chiaro che il problema del rapporto tra gesto e significato si pone in modo del tutto diverso, non può più essere posto sul piano di una pura convenzione. Dobbiamo andare alle origini di questa capacità di espressione, noi siamo in grado di esprimere gli stessi concetti in modi diversi di espressione, cioè ricorrendo a motricità diverse. Si può dire che nelle arti figurative non fanno che raccontare sul piano grafico un tema. Poi naturalmente un critico cercherà, ad esempio, nell’espressione dei personaggi di un quadro di farsi un’idea di quello che speravano, che pensavano, di ciò che è avvenuto, però non c’è dubbio che noi spostiamo questa capacità di esprimerci dalla motricità articolatorio-fonetica alla motricità della mano del pittore che dipinge.

Intanto abbiamo posto una prima idea, se è vero questo, che il significare comincia dall’inizio della parola, dall’inizio del gesto, allora va visto anche sotto un profilo diverso il linguaggio del bambino. Ascoltando un bambino che cerca di ripetere la parola che ha udito per la prima volta, questo modello articolatorio-fonetico che gli è giunto all’orecchio, abbiamo l’impressione che egli non ha l’agibilità necessaria, con la sua senso-motricità prende il modello e lo fa suo, lo incorpora e poi lo excorpora, lo riproduce con i suoi mezzi. E’ come se un artigiano dovesse fare un lavoro con i mezzi che ha a disposizione, fa lo stesso lavoro che fa un altro artigiano con mezzi diversi. Certamente il prodotto finale non sarà uguale, ma tutti e due lo hanno fatto, hanno dato un contenuto espressivo ad un certo oggetto.

Il problema è quindi che non possiamo pensare il significato come un qualcosa che inerisce al gesto in ultimo, al gesto finito. Il significato è incarnato nel gesto, è intrinseco al gesto fin dal primo momento in cui parliamo.

A questo punto da un lato ci sarà tutta la problematica del modo come questo gesto si forma, questa gesticolazione che è molto complessa, perché meno di tutte le altre riesce ad essere controllata, divisa. Se noi, specialmente se non sappiamo dipingere, tentiamo di fare un dipinto, possiamo esercitare un controllo momento per momento, sarà un controllo che invece di aiutare danneggia, però si può fare. Con la parola e ancora di più con la frase, ciò non è possibile, la parola è una motricità di tipo balistico, va impostata totalmente fin dall’inizio, di blocco, non può essere controllata nel suo svolgersi. Una volta che noi diciamo una parola è andata, non si può tornare indietro come forse si può fare con altri gesti, è impostata d’ambleé.

Qui c’è tutto il problema di vedere come questa motricità si prepara. I linguisti in tal senso hanno fatto il lavoro più importante, essi hanno cercato di capire in questa motricità, quali erano gli elementi che la caratterizzavano.  Un punto caratterizzante abbastanza  sicuro era quello dell’articolazione, essi hanno distinto un’articolazione posteriore che produce i suoni gutturali sviluppatasi nel tempo sempre più anteriormente con i suoni dentali e  labiali. Si tratterebbe di un processo di maturazione  che  ci ha permesso di avere un repertorio molto più ricco di quello che non si possa fare con le articolazioni posteriori.

Il problema che si pone a noi di fronte al malato afasico è se questa motricità articolatorio-fonetica ha un grado di possibilità concrete di esprimersi, di realizzarsi, di attuarsi, tali da poter costituire l’ambiente per un significato, oppure è talmente ridotta al minimo, a dei suoni pressochè inarticolati. Ci si deve domandare se questo individuo può offrire un ambito gesticolatorio sufficiente per parlare, per dire un suo significato.

Questo è un momento polare del problema, l’altro momento invece è come questa motricità semplice o complessa che sia, maturata o meno che sia, articolata o meno che possa essere, può fare quello che fa un bambino, cioè assumere un modello, perché non c’è dubbio che noi siamo tutti padroni di una lingua. Noi siamo fatti per parlare, ma è anche vero che cresciamo in un ambiente che ha una sua lingua, per cui non possiamo non tener conto di questo modello che l’ambiente offre. Io credo che oggi nessuno pensi più che il soggetto si prenda il modello della lingua tale e quale com’è, che se lo prende come un modello fisso, immutabile, inamovibile che deve adoperare quello o null’altro. Il soggetto prende un modello, ma cosa prende del modello?

Musica e linguaggio come sistemi integrati


“Là dove finisce la parola, lì inizia la musica”

H.Heine

Allo stato attuale molte linee di ricerca supportano l’ipotesi che la musica e la musicalità, a livello filogenetico e ontogenetico, hanno un ruolo importante nella comunicazione umana, che il sistema comunicativo musicale, sia gestuale che sonoro, precedano il sistema linguistico vero e proprio. 

In un’ottica antropologica linguaggio e musica sono manifestazioni sociali della cultura di riferimento e sono il frutto delle interazioni dei membri del gruppo di appartenenza. Secondo Steven Mithen, esperto in studi interdisciplinari di archeologia della mente,  essi sono degli universali dell’uomo: “La musica e il linguaggio sono caratteristiche universali della società umana. Possono manifestarsi in forma vocale, fisica e scritta; sono sistemi gerarchici e combinatori che coinvolgono il fraseggio espressivo e poggiano su regole che generano una ricorsività e rendono possibile la creazione di un numero infinito di espressioni a partire da un numero finito di elementi” (Mithen S., 2008). I codici della musica e del linguaggio, inoltre, hanno in comune la ritmicità che ad un livello profondo, neurofisiologico, sembra essere regolata dal ritmo respiratorio e dal ritmo cardiaco, alla base delle prime esperienze vitali. Recenti ricerche in campo musicologico, sulla ritmicità respiratoria nel linguaggio e nel canto, hanno stabilito che “le frasi musicali tendono a durare tra i due e i dieci secondi, compatibili con i tempi di respirazione. Analoghe corrispondenze avvengono nel linguaggio parlato in riferimento alle pause fra gli enunciati, in rapporto alla respirazione e al cosiddetto prendere fiato” (Freddi E., 2012).

Anche gli studi sulla prosodia del “madrese” o “baby talk” (infant directed speech – IDS), hanno evidenziato come il linguaggio, nelle prime fasi, viene percepito dal bambino sotto forma di ritmo e melodia, come musicalità che, nella gestualità corporea dei due attori, accompagna l’enunciazione verbale. L’analisi comparata in diverse lingue, inoltre, ha mostrato nel linguaggio “madrese” dei tratti universali. Fernand A. e Kuhl P. (1987) hanno fatto degli studi sui tratti acustici che determinano la preferenza per il “motherese” ed hanno visto nei bambini una spiccata preferenza per quei discorsi la cui frequenza fondamentale veniva modulata in modo da presentare un’esagerazione intonazionale. Secondo le autrici, le caratteristiche prosodiche rilevate dallo studio comparato in sei diverse lingue, hanno un carattere universale e sarebbero da associare ad un costitutivo ruolo cognitivo e alla trasmissione di informazioni di natura primariamente emozionale e affettiva. Tale effetto, unitamente all’efficacia dell’esagerazione dei contorni prosodici nel richiamare e mantenere l’attenzione degli infanti fa delle modificazioni prosodiche un ottimo candidato per la facilitazione della processazione delle costitutive unità foniche della lingua, quindi della sua acquisizione e comprensione. Queste ed altre ricerche fanno pensare che nella fase preverbale la componente sonoro-musicale dell’IDS (infant directed speech) possa vicariare la mancanza momentanea del linguaggio parlato.

Degli studi comparativi sugli effetti della prosodia sul comportamento sono stati condotti, oltre che sui bambini anche sugli animali. Burnham et al. (2002), ad esempio, hanno rilevato nei discorsi riferiti ai bambini pre-verbali e agli animali la presenza di quattro caratteristiche condivise: il tono, l’intonazione, il ritmo e l’iperarticolazione delle vocali, ed hanno visto come tali caratteristiche prosodiche del linguaggio  influenzano il comportamento affettivo sia dei neonati che degli animali domestici, notoriamente sensibili alla espressività emozionale.

Altre interessanti ricerche sono state fatte sull’effetto della voce e del canto sui neonati prematuri, questi hanno mostrato, come il contatto vocale precoce fra genitore e bambino durante il periodo di ospedalizzazione, abbia effetti positivi sulla sua stabilità, sulle sue competenze cognitive e sulla riduzione dello stato d’ansia genitoriale. Recentemente, è stato condotto  da F. Ferrari, Filippa Manuela et al. (2017), presso la Terapia Intensiva Neonatale (TIN) dell’Università di Modena e Reggio Emilia, uno studio (che fa parte di un ampio progetto) sull’effetto della voce e del canto delle mamme sulle reazioni fisiologiche e sulla maturazione del cervello dei neonati prematuri in incubatrice. Gli AA. hanno rilevato che sentire il suono della voce materna parlare o cantare, sia registrata che dal vivo, migliora le  condizioni dei bambini , ne riduce i problemi cardio-respiratori con potenziali benefici clinici sulla maturazione del sistema nervoso. 

L’analisi della profonda musicalità delle relazioni pre-linguistiche e linguistiche fra madre e bambino nei vari stadi della crescita secondo molti studiosi consente di “avvalorare l’ipotesi, che linguaggio musicale e linguaggio verbale siano sistemi integrati, più che accostati ed analizzati per differenze o somiglianze” (Freddi E.,2012).

 Lidia Gomato

Riferimenti bibliografici:

Mithen S., Il canto degli antenati, Editore Codice, 2008

Freddi E., Lingua e musicalità (2012, p. 83) https://edizionicafoscari.unive.it/media/pdf/article/elle/2012/1/lingua-e-musicalita/art-10.14277-2280-6792-6p.pdf

Burnham D., Kitamura C., What’s new pussycat? On talking to babies and animals, “Science”, 296, 2002

Fernald A. & Kuhl P., Acustic determinants of infant preference for motherese speech, Infant Behavior and Development 10, 1987

Filippa M., Ferrari F., 2017 https://www.researchgate.net/publication/327445756_Il_contatto_vocale_materno_in_Terapia_Intensiva_Neonatale_alle_origini_della_comunicazione_fra_genitori_e_neonati_prematuri.